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Villa Poniatowski è situata nel quartiere Flaminio a ridosso di Villa Borghese.
Acquisita dallo Stato Italiano nel 1988, Villa Poniatowski è oggi una delle due sedi di ETRU, il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, in cui sono esposte preziose antichità provenienti dal Latium Vetus e dall'Umbria.
Villa Poniatowski
Villa Poniatowski, già nota come Villa Cesi, è citata come una delle più belle della città dal celebre viaggiatore Michel de Montaigne già alla fine del Cinquecento, e riprodotta nelle incisioni di Giovanni Francesco Venturini (1683) e Giuseppe Vasi (1757).
Nata come dependance della villa di papa Giulio III Ciocchi del Monte su via dell’Arco Oscuro (odierna via di Villa Giulia), in un’ampia zona verde non lontana dal Tevere, Villa Poniatowski prende il nome dal principe Stanislao Poniatowski, nipote dell'ultimo re di Polonia, che, , trasferitosi a Roma verso la fine del Settecento, scelse questo edificio cinquecentesco per farne la sua dimora.
I lavori di risistemazione furono affidati a Giuseppe Valadier, celebre architetto neoclassico che proprio dal mondo antico trasse ispirazione per la realizzazione delle sale principali.
L’architetto interviene sul casino cinquecentesco e sui giardini, ispirandosi allo stile neoclassico.
Negli anni Villa Poniatowski è interessata da numerose compravendite - dal generale Sykes al pittore Domenico Carelli e al nobile inglese Francesco Moore Esmeade - e subisce gravi danni in seguito agli scontri tra garibaldini e francesi del 1849, durante la Repubblica Romana.
Nel 1871 Villa Poniatowski è stata acquistata dalla famiglia Riganti, la quale ha edificato una conceria nell’area del giardino, in cui è attualmente ospitata la Biblioteca.
Tutta l’area è andata poi incontro a un lungo periodo di abbandono e di progressivo decadimento, con insediamenti di abitazioni, di officine, di studi artistici.
Acquisita dallo Stato Italiano nel 1988, Villa Poniatowski è oggi una delle due sedi di ETRU, il Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, in cui sono esposte preziose antichità provenienti dal Latium Vetus e dall'Umbria.
Alla villa si accede da un portone cinquecentesco che introduce in un piccolo giardino.
Una rampa conduce oggi al cuore del museo.
È difficile riconoscere l’impianto del XVI secolo, profondamente modificato dalla travagliata storia che ha investito Villa Poniatowski.
Nei lavori di restauro sono stati riportati alla luce gli stemmi della famiglia Cesi, che vi aveva soggiornato alla fine del ‘500.
Sono riemersi anche parte degli affreschi originari, raffiguranti paesaggi e grottesche, che erano stati occultati da controsoffitti.
Sono pitture tardorinascimentali, di autore ignoto ma ascrivibili alla cerchia di Antonio Tempesta e di Daniele da Volterra.
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Lo splendore di Villa Poniatowski
Villa Poniatowski è impreziosita da vasche e fontane, mentre il vasto giardino all’italiana, formato da terrazze a gradoni, è ornato da sculture antiche e, al tempo, chiuso in alto dalla "Loggia delle delizie".
Di particolare rilievo gli interni dalle raffinate decorazioni: la Sala dell'Ercole Farnese al piano terra, la Sala Indiana – con affreschi ottocenteschi dai temi esotici, e la Sala Egizia o Sala delle Colonne Doriche del piano nobile – con affreschi neoclassici di paesaggi egiziani e il colonnato in prospettiva.
La sala Egizia, o delle Colonne doriche, si presenta ora come la più grande e la più scenografica del piano nobile, grazie al grande affresco ottocentesco con scorci di paesaggio nilotico di Felice Giani, cui fa da pendant dall’altro lato la vista sul Colle dei Parioli, ancora ricco di verde.
La suddivisione dello spazio data dalle colonne affrescate crea l’illusione di una loggia sulle sponde del Nilo, ricche di obelischi, sfingi e piramidi, secondo quel gusto egizio che a Roma fu rilanciato da Piranesi (basti pensare alla piazza dei Cavalieri di Malta e alla decorazione dello scomparso Caffè degli Inglesi).
Le colonne dipinte imitano il granito rosso, mentre i riquadri dello zoccolo sottostante ricordano i rivestimenti parietali di porfido e serpentino dell’antica Roma.
L’altra sala celebre del piano nobile è quella Indiana, affrescata sempre da Felice Giani, con paesaggi di chiara ispirazione esotica (si riconoscono la veduta del Gange a Benares e le tombe Moghul), intramezzati da colonne arabo-indiane e tendaggi esotici sui toni bianchi e rossi.
Felice Giani, pur essendo un pittore neoclassico, crea in questo caso un’ambientazione tutt’altro che algida, colorata e un po’ bizzarra.
Oltre a questi ambienti di rappresentanza dell’edificio valadieriano, sempre al piano nobile troviamo la sala dei Busti, decorata con busti dipinti all’interno di medaglioni, alternati a riquadri con grottesche, mentre al piano terra troviamo la sala dell’Ercole Farnese, così chiamata perché vi era una copia della celebre statua del Museo Archeologico di Napoli, raffigurante l’eroe nudo che si appoggia a una clava.
La passione per il mondo antico traspare in questa sala dal calco in gesso del rilievo della Processione dell’Ara Pacis (in origine erano due) e dalla volta a finti lacunari, realizzati precedentemente rispetto all’intervento del Valadier.
Le collezioni museali di Villa Poniatowski sono di grande interesse e sono dislocate in nove sale.
Al piano terra sono stati collocati i reperti dell’Umbria, che documentano le diverse fasi artistiche delle popolazioni che abitavano la valle tiberina.
Provengono da Terni, Nocera Umbra, Gualdo Tadino e Todi, le cui necropoli in particolare hanno restituito corredi di altissimo livello (V-III secolo a.C.), come nel caso della tomba degli Ori appartenuta a una dama di alto rango (particolare è la collana a bulle decorata con teste di Medusa, come pure lo specchio con rappresentazione del giudizio di Paride).
La tomba del Guerriero (fine V secolo a.C.), oltre ad aver restituito un consistente apparato da banchetto in bronzo e numerose ceramiche attiche figurate, si distingue per l’elmo da parata di tipo attico, in bronzo ageminato in argento e decorato a sbalzo con scene di combattimento, di produzione vulcente.
Tra i reperti più originali sono dei barilotti lignei con fasciature di bronzo, provenienti da Gualdo Tadino. Dovevano servire al trasporto di liquidi come acqua e vino, com’è raffigurato anche in un’incisione della notissima Cista Ficoroni, conservata a Villa Giulia.
Al piano nobile troviamo i tesori del Latium Vetus, con importanti resti di edilizia sacra e di materiale tombale.
Dal Santuario di Diana a Nemi provengono offerte votive e rivestimenti architettonici in bronzo dorato, da Tivoli manufatti miniaturistici che vanno dall’VIII al II secolo a.C.
Riveste carattere di dono eccezionale il modellino fittile di edificio, probabilmente templare, con tetto a doppio spiovente, recuperato a Velletri.
Da Gabii proviene un altro manufatto rarissimo: un monumentale sarcofago di legno ricavato da un tronco (VII secolo a.C.).
Ricordiamo tra gli altri i reperti relativi a Lanuvio (Tempio di Giunone Juno Sospita, 500 a.C.), Segni (tempio di Giunone Moneta), e soprattutto Satricum e Palestrina.
Da Satricum provengono le terrecotte architettoniche del celebre santuario dedicato a Mater Matuta, la divinità italica che era preposta alla luce del giorno (“matutina”) e alle nascite.
Da Palestrina, invece, provengono i ricchissimi corredi di stile orientalizzante della tomba Bernardini (straordinari un piatto d’argento decorato con motivi egizi e una splendida coppa blu forse assira) e della tomba Barberini, con avori intagliati e straordinarie oreficerie.
Molto fiorente a Palestrina (Praeneste in età romana) è la produzione locale di oggetti di bronzo, che tocca il suo apice tra il IV ed il III secolo a.C., grazie al contatto con le maestranze artigianali etrusche, alcune certamente operanti in loco.
In esposizione troviamo un trono, armi e suppellettili da tavola, ma sono alcuni oggetti femminili a colpire maggiormente la nostra attenzione, come le ciste di bronzo, contenitori da toeletta di varie forme e grandezze, realizzati con scene mitologiche o di genere sul corpo e con manici e piedi figurati.
Sempre alla vanità femminile si riferiscono gli specchi metallici con un lato decorato e l’altro accuratamente lisciato in modo che l’immagine si riflettesse sulla superficie, come pure delle scatoline in legno a forma di colomba, cerbiatto, anatra, internamente suddivise in piccoli reparti per conservare le polveri colorate per il trucco.
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